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Avellino - Il documento di Controvento sull'urbanistica di fatto e le contraddizioni di Buondonno

Il documento di indirizzi urbanistici predisposto dall’assessore Emma Buondonno pone alcune questioni che l’associazione “Controvento” giudica importanti e condivisibili. Sono le premesse da cui parte il testo che per titolo ha “Infrastrutture e connessioni: il ruolo della città di Avellino nello sviluppo della provincia e per il riequilibrio della Regione Campania”. Due, in particolare: quando si afferma che “è fondamentale, quindi, che il riequilibrio proposto non si traduca in un processo amplificatore dell’attuale tendenza di trasferimento di semplici pesi demografici senza che questi rivitalizzino il sistema e l’armatura urbana della Provincia di Avellino” e laddove si sottolinea che “è completamente tramontata la stagione dei Piani urbanistici estensivi concepiti esclusivamente per gonfiare le rendite di un’industria del mattone brutale che ha cancellato intere parti di uno dei paesi più belli del Mondo e dei suoi paesaggi”. Da ciò l’assessore Buondonno fa discendere anche altre riflessioni e notazioni che davvero risponderebbero ai temi che l’associazione “Controvento” ha sollevato anche confrontandosi pubblicamente con lei: nel documento compaiono più volte parole come ambiente, sostenibilità, difesa della natura, riuso, recupero. Tutto il lessico ambientalista è presente, a giustificare una presunta vocazione turistica della città piuttosto che di altri territori irpini, ma la sintassi conseguente è assente. Perché la logica e diretta conseguenza delle valutazioni esposto sarebbe una e soltanto una: adottare una variante urbanistica di salvaguardia delle colline, dei corsi d’acqua, del paesaggio – così come “Controvento” ha più volte richiesto – che rappresenti una condizione necessaria e sufficiente per ogni ulteriore esame e per qualsiasi tipo di proposta. Invece, nel documento, di variante di salvaguardia non si fa alcun cenno. Al contrario, l’assessore Buondonno negli elenchi delle opere comprende tutto e il contrario di tutto, dalle lodi per il trasporto su ferro alla riproposizione di strade varianti, a dispetto del consumo zero dei suoli, con una sintassi evanescente soprattutto nella parte finale, dove al disegno e al ruolo di Avellino in Campania, subentra la polpa della difesa dei diritti acquisiti.

  In sostanza, per non scontentare nessuno si può continuare a pianificare soltanto in crescita. La contraddizione è evidente e proprio questo punto di incongruenza consente di cogliere la sostanza autentica della filosofia che muove il lavoro dell’assessore.

 Le due componenti fondamentali del Piano urbanistico appaiono già delineate, decise,  amministrazione cittadina. Da un lato, la cristallizzazione delle attese, degli interessi, delle pressioni esercitate sui Puc precedenti le quali lasceranno poco spazio agli urbanisti che volessero cimentarsi con una città, Avellino, oggi in condizioni sociali, economiche e demografiche ben diverse dal passato. Dall’altro, la conferma dell’urbanistica di fatto  – la parte attuativa del Puc, secondo le parole della Buondonno – che caratterizza l’attuale amministrazione fin dal suo esordio. Ovvero: si passa all’azione prima ancora che il documento proposto dalla Buondonno sia dibattuto in Consiglio ed approvato, quasi che questo fosse un passaggio formale, utile a dare una cornice elastica al procedere nei fatti quotidiani.

  L’assessore all’Urbanistica non sembra essersi accorta che malgrado lei ad Avellino si sta infatti praticando una urbanistica di fatto, scollegata dalle previsioni e in spregio delle norme, in base alla quale si è spostata l’area del mercato bisettimanale -ormai sparito- in un luogo dove insistono diritti edificatori che prima i poi i cittadini faranno valere; si è avviata la vendita di una parte dell’edificio che ospita gli Uffici comunali presupponendo di rientrare in possesso di Palazzo De Peruta ma senza dire dove trasferire i Giudici di pace; si è proposto di abbattere il Tribunale realizzando una piazza o un parcheggio ma non si è indicato dove sistemare gli Uffici giudiziari; si è promesso al proprietario di turno della società di calcio la realizzazione di nuovo Stadio ma non si è precisato dove e come; si è proposto il tutto e il niente per l’area dell’ex Isochimica di rione Ferrovia consegnandola a vaghi concorsi di idee e a concreti sospetti speculativi; si è continuato a blaterare di diverse destinazioni per la struttura che accoglieva l’Ospedale “Moscati” in viale Italia senza arrivare a sbrogliare la pratica della titolarità dell’impianto; si è guardato – anche nelle giornate nell’emergenza da Covid 19 – all’ex ospedale “Maffucci” per riaprirlo a scopi di cura e assistenza, ma nessuno si è incaricato di avviare un confronto istituzionale con la Regione Campania. Si è andati avanti, insomma, in un gioco confuso e pasticciato che se da un lato fa perdere di vista l’obiettivo di disegnare una visione per l’Avellino dei prossimi anni, dall’altro consente operazioni di convenienza economica con il rischio di un ulteriore assalto ai brandelli in cui è ridotta la città.

  Nel testo di Buondonno non c’è nessuna analisi riguardo a ciò che è avvenuto nella città di Avellino negli ultimi 12 anni. Il Piano urbanistico comunale Gregotti-Cagnardi, ancora in vigore, è il convitato di pietra nel documento di indirizzi. Eppure sarebbe bastato risalire al 15 gennaio 2008, al decreto del presidente della Provincia che approvava definitivamente quel Puc: da allora, mentre si registrava la più grande crisi dell’edilizia che il Paese ricordi, lo strumento urbanistico, con il ” favor aedificandi”, è stato attuato prevalentemente nelle zone sature del capoluogo, innescando contenziosi in tutte le sedi legali, con danni irreparabili per la vivibilità, l’estetica e l’architettura della città.

  La stagione che consentì la elaborazione del Piano Gregotti-Cagnardi costituì il momento politico in cui emerse  una nuova visione della città; con  la carica innovativa degli urbanisti, innovativa nelle norme (la perequazione ) e nel modellare sul territorio urbano funzioni ed esigenze collettive (una per tutte, il parco centrale e la salvaguardia di acque e colline ); infine, con  l’esigenza per la città di uscire dal chiuso delle mura, verso un territorio più vasto, la Campania interna.

  Quel momento fu seguito da una nuova e lunga stagione in cui l’attore politico non sorresse più quel Puc, si sottrasse allo spirito innovativo, reinterpretò le norme e si alleò con quel ceto professionale e imprenditoriale che, fin dalla presentazione, aveva osteggiato il Puc Gregotti-Cagnardi, senza neppure tentare di comprenderne la logica interna.

  L’attuale amministrazione è la prosecuzione di questa seconda stagione, aggravata dalle conseguenze di una pandemia e di una crisi del lavoro, con le forme e le ampiezze non ancora del tutto palesate. E le crisi sono i momenti in cui la politica, anche quella che amministra una città, deve accettare la sfida e non limitarsi alle operazioni, ai metodi, alle furbizie che ha già mostrato. Da più parti, in questi tempi, vengono rimessi in discussione il concetto della città, dell’abitare e muoversi in una città, del rapporto tra città e campagne e natura. Oggi, con un capoluogo che non cresce in residenti, fermo da anni sotto quota 55.000, bisognerebbe avere il coraggio di ridurre, ulteriormente, gli indici edificatori. Soltanto impedendo nuova cementificazione si può pensare di cominciare a trasformare il territorio con il riuso dell’esistente attraverso pratiche edilizie innovative a livello energetico e ambientale. Bisognerebbe insistere con le formule del contratto di quartiere e della sostituzione edilizia per mettere in sicurezza il patrimonio abitativo pubblico. Per quello privato occorrerebbe intervenire con piani particolareggiati ed agevolazioni. Ma esistono a Piazza del Popolo sensibilità capaci di pronunciare qualche no di fronte al partito del mattone, purtroppo sempre incombente quando si tratta di porre mano ai piani urbanistici? Le recenti polemiche sul ridimensionamento dei comparti in chiave speculativa non fanno ben sperare.

  La città dei tre grandi parchi – dell’Autostazione, del Fenestrelle, del Q9 – da realizzare con la cessione di aree da parte dei privati, è rimasta un sogno nel cassetto. L’assessore Buondonno immagina lo sviluppo di Avellino, ma ciò che delinea potrebbe essere un modello applicabile in qualsiasi altra realtà del Mezzogiorno, attraverso il verde, il posizionamento in una rete regionale del trasporto su gomma e ferro e una serie di funzioni direzionali. Quali gli strumenti concreti per realizzare tutto ciò qui e ora, ad Avellino? Si ha il coraggio, per migliorare gli standard e gli indici della qualità della vita, di deliberare, di nuovo, la variante di salvaguardia degli ambiti collinari e fluviali, rendendo inedificabili tutte le aree agricole della città e quelle di interesse paesaggistico? Per la viabilità è mai possibile tornare ancora sul progetto della grande variante sud, aggredendo ettari di territorio vergine con costi ingenti, e non pensare al possibile ampliamento di quella attuale?

 Se ci fossero risorse da investire, il terzo casello nell’area di via Annarumma, zona ad altissimo impatto di traffico, potrebbe essere ancora una soluzione decisamente valida. Per i trasporti su ferro sarebbe possibile ambire a una rete moderna, veloce, eco-sostenibile che faccia uscire, finalmente, la città e la provincia dall’isolamento. 

  Una delle sfide, infatti, sarebbe consistita nel dialogo dalla città con i territori della Campania, attraverso un’equilibrata rete di trasporti intra ed extraurbani, collettiva, ecologica, il più possibile su ferro. Una rete che potesse regolare i flussi per e dalla città; una città in drastica calo demografico, depauperata dei giovani, dove – forse – funzioni di cura e di studio, opportunamente ripensate, potessero attrarre.

    Si preferisce prendere un’altra strada. Ma se ciò è, è bene che il tutto avvenga nella chiarezza e senza imbellettare la convenienza con la pianificazione.